martedì 28 febbraio 2023

Come mi sono scoperta lettrice: "Il barone rampante" di Italo Calvino

 “Cosimo guardava il mondo dall’albero: ogni cosa vista da lassù, era diversa, e questo era già un divertimento. Il viale aveva tutta un’altra prospettiva e le aiuole, le ortensie, le camelie, il tavolino per prendere il caffè in giardino. Più in là le chiome degli alberi si infittivano e l’ortaglia degradava in piccoli campi a scala, sostenuti da muri di pietre; il dosso era scuro di oliveti e dietro, l’abitato d’Ombrosa sporgeva i suoi tetti di marrone sbiadito e ardesia, e ne spuntavano pennoni di bastimenti, là dove sotto c’era il porto. In fondo si stendeva il mare, alto d’orizzonte ed un lento veliero vi passava”.

 



Mi sono scoperta lettrice relativamente tardi. Era l’estate dei miei diciassette anni, mi apprestavo a vivere il mio ultimo periodo da liceale e agognavo quella libertà che tutti i giovani non vedono l’ora di avere tra le mani, ma che hanno anche paura di sprecare. Fu in una giornata animata dai presagi più oscuri che, con gli occhi arrossati a causa di una cocente delusione d’amore la quale ancora procurava grandi scossoni al mio cuore, iniziai a leggere “Il barone rampante” di Italo Calvino. Lo avrei detestato, ne ero già certa. Perché la professoressa voleva a tutti costi farci trascorrere la nostra estate chini sui libri? Non ci bastavano già nove mesi di scuola? Non lo avrei mai terminato. 

E invece, accadde qualcosa che non mi sarei minimamente aspettata. Seguendo la storia di Cosimo di Rondò, consumando le parole, masticando avidamente le righe nere sullo sfondo bianco in cui tutto può accadere, ma non è detto che accada, iniziai a percepire che dentro di me stava succedendo qualcosa: non c'erano dubbi che Calvino mi avesse conquistata, ma anche questo piccolo oggetto di carta, che bastava aprire perché ti raccontasse il suo mondo, non era niente male.

È stato quello il primo momento in cui ho capito che l’amore per i libri mi aveva scelta, aveva deciso di donarsi a me, con lo zampino di Italo Calvino che era entrato di soppiatto nella mia vita per non uscirne mai più.


“Il barone rampante”, pubblicato per la prima volta nel 1957, parte da una considerazione importante: la realtà è diventata banale e noiosa, bisogna trovare il modo di evadere. E il barone Cosimo Piovasco di Rondò lo fa. In seguito a un piccolo litigio con il padre, decide di abbandonare la sua casa, i suoi familiari e la sua vita agiata per nascondersi tra i fitti rami degli alberi e trascorrere lì la sua intera esistenza. 

Attraverso l’io narrante del fratello del protagonista, che rimane “ a terra” ammirato dalle sue inconsuete quanto meravigliose gesta, percorriamo la vita del Barone che si fonde con le più importanti vicende storiche della fine del XVIII secolo fino alla Restaurazione, tutto vissuto dall’alto passando da un albero all’altro senza mai scendere. 

Ciò conduce l’autore a creare tutta una serie di divulgazioni in cui compaiono un Napoleone desideroso di proporsi come un novello Alessandro Magno, un Voltaire che s’intrattiene in una conversazione con la nobiltà parigina e via di seguito una schiera di anonime figure di massoni, gesuiti, esuli spagnoli, rivoluzionari giacobini, pirati, truppe francesi e via discorrendo.

Dietro la vivacità della narrazione troviamo, però, il cuore pulsante dell’opera: il tema del rapporto io – mondo esterno. Cosimo va a vivere sugli alberi, si isola, ma non rinuncia a essere partecipe delle disavventure e gioie dei “terrestri”. Il suo idealismo lo stimola a progetti utopistici in cui coinvolge il popolino di Ombrosa, il paesino immaginario della riviera ligure, in cui si svolgono i fatti. 

In sintesi, l’autore offre una rappresentazione letteraria del dissidio tra libertà personale e necessità di un qualsiasi patto sociale con relative restrizioni e compromessi.

Un dissidio che lo porterà in piena crisi quando si scontrerà con il sentimento che più di tutti “move il sole e le altre stelle”: l’amore.


“Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non si era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così”.


Cosimo scorge Viola per la prima volta sporgendosi dai rami di una magnolia verso il terreno dei D’Ondariva, i suoi vicini di casa. Lei è una bambina bionda sui 10 anni e lui incuriosito dalla sua immagine inizia ad ammirarla dall’alto, fin quando i due non iniziano un’amicizia fatta di giochi vivaci e battibecchi dispettosi dai quali poi sboccerà l’amore.

Viola è uno dei personaggi più interessanti di questo romanzo per  la forte ambivalenza che presenta la sua personalità. È infantile, ma dimostra in diverse occasioni di essere dotata di un’importante profondità; è viziata e opportunista, ma è anche una donna indipendente che sa ciò che vuole. Così il lettore insieme allo stesso Cosimo è portato a nutrire sentimenti contrastanti per colei che sarà l’unico e vero amore del protagonista.

Un amore tortuoso e instabile reso tale dal carattere poco malleabile dei due personaggi e dalla gelosia esasperata che appartiene ad entrambi, dovuta soprattutto al fatto di non conoscere i loro reciproci passati. Litigi, incomprensioni e dolori portano Cosimo e Viola a dirsi addio, ma il ricordo di quel sentimento non abbandonerà mai il cuore del Barone. 

“S'accorgeva che tante cose non gli importavano più, che senza Viola la vita non gli prendeva più sapore, che il suo pensiero correva sempre a lei. Più cercava, fuori dal turbine della presenza di Viola, di ripadroneggiare le passioni e i piaceri in una saggia economia dell'animo, più sentiva il vuoto da lei lasciato o la febbre d'attenderla”.


In questo romanzo di formazione anche l’amore determina una scelta perché Cosimo, l’eroe della disobbedienza verso le norme che regolano la società, decide di voltare le spalle anche al sentimento più forte che abbia mai provato. E che la colpa sia sua o di Viola non importa, Cosimo sceglie di sua spontanea volontà di continuare a essere l’uomo che vive sugli alberi, di restare sospeso nel mondo e di essere fedele a quel disimpegno sociale che – nonostante provi a dimostrare il contrario – resterà sempre tale. 

Ed ecco che il lettore riesce a immedesimarsi nel Barone, ecco che la me del passato e del presente leggendo e rileggendo le parole di Calvino e del suo protagonista concordano nel ritenere che questo romanzo sia l’inno della fragilità umana. Una fragilità che ci viene raccontata attraverso le amicizie, le esperienze, la cultura e l’amore che ogni uomo prova nella sua stessa vita, cose che gli riempiono l’esistenza e lo rendono completo, ma non per questo felice.

E allora Cosimo di Rondò è stato coraggioso o vigliacco? Determinato o ottuso? Non lo sapremo mai, neanche dopo aver letto l’ultima pagina, in cui Biagio ricorda suo fratello e il giardino in cui erano soliti giocare e dà sfogo a quella nostalgia ispirata dai ricordi e dai luoghi della sua infanzia.


“Ora che lui non c’è mi pare che dovrei pensare a tante cose, la filosofia, la politica, la storia, seguo le gazzette, leggo i libri, mi ci rompo la testa, ma le cose che voleva dire lui non sono lì, è altro che lui intendeva, qualcosa che abbracciasse tutto, e non poteva dirla con parole ma solo vivendo come visse”.


Una cosa, però, posso dirla. Il Barone rampante mi ha insegnato una cosa importante: capiterà sempre di restare intricati tra i rami e le spine della nostra esistenza, di sentirsi sospesi in un mondo tutto nostro mentre chi ci circonda porta avanti la sua vita con o senza di noi, ma fuggire da sé stessi e dalle proprie responsabilità non ci farà sentire meglio. Bisogna affrontare i nostri demoni e le nostre paure più profonde, restare con i piedi per terra, ma soprattutto avere il coraggio di accettarsi e di amarsi per quello che si è.

E se lo avesse fatto anche Cosimo, quale piega inaspettata avrebbe preso la sua vita?

Forse avrebbe avuto il coraggio di cambiare la sua storia, di scenderle dall’albero, di scegliere la vita, l’amore e non soffrire più.

Forse, oppure no.





venerdì 29 luglio 2022

[Recensione]: “La luna argento” di Lorenzo Sassoli De Bianchi

 “Non era la luna nera di Lilith, quella della notte e dei morti, né la piccola luna crescente, la minuscola vergine bambina degli inizi. Non era neppure la luna fluttuante delle maree che si trasforma con il tempo: l’argento rappresentava il sommo chiarore della luna piena,il suo punto di massima elevazione”.





Mentre leggevo il nuovo romanzo di Lorenzo Sassoli De Bianchi, “La luna argento”, ho pensato a mia nonna, a tutte le volte che mi ha detto di sentirsi sola, a quei giorni in cui mi ha raccontato la storia della sua vita davanti a un caffè e a tutti quei momenti in cui la sua età l’ha spinta a credere di essere ormai inutile. Così, mentre mi addentravo nella storia di Leone Caetani, ho deciso di recarmi da lei, leggerle qualche pagina e raccontargli questa vicenda, che ha finito per colpirla molto.


Dopo la "La luna rossa" e "La luna bianca", Lorenzo Sassoli De Bianchi, torna in libreria con "La luna argento".


Il protagonista di questo romanzo è Leone Caetani, un poeta ormai dimenticato, che viene ricoverato al Santa Tea, un ospizio per anziani artisti e proprio qui assiste a un evento tragico: l’omicidio di Federico Brembani. 


La polizia e il commissario Guidi iniziano a indagare, non solo sulla scomparsa di Brembani, ma sulle tante morti che sconvolgono giorno dopo giorno il Santa Tea, come Lepori avvelenato con i detersivi e Cocchi soffocato dal suo stesso cuscino.

Possibile che nessuno conosca l’assassino? C’è davvero un assassino o si tratta di una serie di suicidi? E se esistesse un novello Caronte che dona la libertà della morte agli anziani, rispetto alla prigionia di un’esistenza vissuta da emarginati e in piena solitudine?


Saranno questa storia e i suoi misteri a dare nuova linfa vitale a Leone, la cui vita prenderà una piega inaspettata e carica di significato. 


Tramite una vicenda colorata e incalzante, Lorenzo Sassoli De Bianchi affronta un tema importante, quello della condizione degli anziani, troppo spesso lasciati soli e dimenticati, che ancora hanno tanto da dare alla società e alle persone che gli stanno attorno.


Non posso che consigliare la lettura de’ “La luna argento” e raccomandarvi di recuperare i romanzi dello stesso autore, che tanto fanno riflettere e lasciano sempre al lettore un importante messaggio morale.


A presto,

La vostra contessa.


giovedì 17 febbraio 2022

[Recensione]: "Sempre tornare" di Daniele Mencarelli

   




Titolo: "Sempre tornare"
Autore: Daniele Mencarelli
Casa editrice: Mondadori
Pagine: 323
Prezzo: 19,00 


"Come sono arrivato qui?
Non intendo il luogo, il momento, ma qui sulla terra, generato da mia madre e mio padre". Mi dovrei far bastare questo: sono figlio dei miei genitori. Figlio di questo pianeta. Ma perché non mi basta? Perché mi ritrovo sempre a scavare dentro le cose, le persone?
Lo faccio perché voglio capire. Perché una volta capito tutto, avrò la cura a questo dolore che porto da sempre. Alla nostalgia che mi parla una lingua che non capisco. Io non lo voglio più vivere questo dolore. Non voglio più vivermi dentro. La leggerezza. Vorrei essere leggero".

Questa volta non ce l'ho fatta, a pagina 66 di "Sempre tornare" mi sono scese delle copiose lacrime che sono cadute sulle parole "dolore" e "leggerezza", le quali si sono bagnate e ingrandite come succede con la carta stampata. Sono diventate grandi e grosse, un peso che Daniele, il protagonista del romanzo, deve portare sempre con sé e che non può lasciar andare facilmente, come invece fa con  la sua valigia verde pisello, che abbandonerà durante un viaggio lungo due settimane. Ma andiamo con ordine.

Dico che questa volta non ce l'ho fatta a trattenere le lacrime, perché con Daniele Mencarelli è sempre difficile farlo. Già con "Tutto chiede salvezza" ero riuscita a irrompere in un pianto liberatorio solo dopo aver girato l'ultima pagina, perché con lui è tutto poesia, sentimento, intensità, anche i suoi ringraziamenti finali, in cui avevo trovato sentimenti di infinita dolcezza e speranza. Però, con questo suo ultimo lavoro, mi sono sentita subito affine, Daniele e la sua storia mi hanno letto dentro, presa per mano e condotta verso il dolore - proprio e degli altri- e la conoscenza più profonda di sé.

Siamo nell'agosto del 1991 - una vera coincidenza il fatto che si tratti proprio del mese e dell'anno in cui è nata la sottoscritta - e il diciassettenne Daniele, dopo una brutta serata trascorsa in compagnia di amici, decide di proseguire le sue vacanze da solo: partendo da Misano Adriatico avrà due settimane di tempo per raggiungere i Castelli romani e tornare a casa.


"Noi . Viviamo dentro vite inscatolate, quando fuori, in mano alla libertà, ci è concesso questo. Fare di ogni giorno una festa di incontri, di luoghi mai visti, di sconosciuti con cui ti metti a tavola come lo facessi da sempre".



Daniele non ha soldi né documenti con sé e per questo dovrà vivere della generosità altrui. Il ragazzo macina chilometri su chilometri a piedi, dorme all'aria aperta, soffre il freddo, la sete e la fame, ma vive anche momenti irripetibili insieme a persone incontrate per caso, le quali gli offriranno non solo ospitalità, ma condivideranno con lui anche un pezzo della loro storia. È così che si scontrerà con la tristezza di Emma per la perdita di sua madre, la depressione di Manlio per la sua vita in solitudine, la rude arrendevolezza di Veleno per la perdita di sua moglie e il dolore che tutti i volti incontrati portano con sé e che Daniele fa proprio. 
Perché il nostro protagonista al dolore non si sa sottrarre, lo conosce bene e se lo porta sempre dietro come un amuleto. Voltargli le spalle non avrebbe senso, perché è porsi tanti interrogativi, riconoscersi negli altri, empatizzare con le loro disgrazie che serve a Daniele per sentirsi vivo e accettarsi per quello che è: uno che scava nelle cose in profondità, anche a costo di farsi male. 

Non so dirvi se facendo autostop tra le meraviglie della nostra Italia, il protagonista del romanzo avrà trovato le risposte che cercava, ma io me lo immagino una volta arrivato alla meta, guardarsi indietro e dire a sé stesso "Bravo Daniele, tutto quello che hai incontrato, tutte le storie che hai ascoltato ora faranno sempre parte di te, fanne buon uso".
Come io farò davvero buon uso delle parole di Daniele Mencarelli e del meraviglioso viaggio che mi ha fatto intraprendere, pregno di sentimenti autentici e tanta poesia.

Spero che la recensione possa convincervi a leggere "Sempre tornare", perché ne vale davvero la pena.

A presto, 
la vostra Contessa.


martedì 16 novembre 2021

Recensione: La luna bianca di Lorenzo Sassoli De Bianchi

 Titolo: La luna bianca

Autore: Lorenzo Sassoli De Bianchi

Casa editrice: Sperling&Kupfer

Pagine: 217

Prezzo: 16,90 euro





“Se di notte non riesci a dormire è perché sei nei sogni di qualcun altro”, mia mamma continua a ripetermelo da metà della mia vita, fin dal primo momento in cui ho scoperto di aver ereditato da mio padre il gene dell’insonnia.

Sarebbe davvero molto bello legare questo fastidiosissimo disturbo a qualcosa di magico e romantico, ma io non sono mai riuscita a vederci nessun lato positivo nell’addormentarmi con difficoltà e svegliarmi il giorno dopo con le sembianze di uno zoombie. 


Con questa premessa potrete capire presto, perché la vicenda raccontata dal neurologo e imprenditore Lorenzo Sassoli de Bianchi, mi abbia appassionata tanto.


Protagonisti del romanzo sono Arturo e Corallo, due fratelli davvero sui generis, che uniscono le loro forze e capacità, per poter scoprire una cura alla sindrome della luna bianca: una malattia mortale che ha contagiato tutta la città e che ha come sintomi l’impossibilità di dormire, l’euforia, la mancanza di lucidità e la perdita di memoria. 


In seguito alla morte della loro zia Rebecca, i due fratelli si interrogano sulle cause e le conseguenze della luna bianca e iniziano a collaborare con la neurologa Luisa Garesi, prestando i loro cervelli alla scienza e alla ricerca disperata di una soluzione che possa interrompere l’epidemia di insonnia.


La cosa che mi ha molto incuriosita, è il modo in cui l’autore si soffermi non solo sugli aspetti negativi della malattia - veglia continua e micidiale -, ma anche su quelli positivi come la creatività, l’aver a disposizione più tempo per svolgere tutti gli impegni e le attività della vita e infinita vitalità.


Questo è ciò che succede a Corallo, quando viene contagiato dalla luna bianca. Diventa instancabile, si dedica costantemente alla costruzione di un sottomarino con il quale ritiene di poter raggiungere la defunta moglie, scrive poesie e ascolta Bach, perché afferma che la musica lo aiuta a convivere con l’insonnia. 

Nel frattempo, però, la professoressa Garesi, Arturo, sua figlia Carolina e si suoi nipoti, lo vedono spegnersi e sanno perfettamente quale destino lo attenderà.


In un’atmosfera mistica e quasi irreale, in cui fantasia e realtà si incontrano e si scontrano fino a diventare un tutt’uno, abbracciando la letteratura di Marquez, le pagine di Kafka, le parole di Joyce e un pizzico d’arte, si consuma il romanzo di De Bianchi, fatto di buoni sentimenti, emozioni vivaci e di un emozionante lieto fine.


sabato 13 marzo 2021

[Recensione]: “L’arte di restare a galla” di Valentina Ferrari

      “Oggi ho compiuto trent’anni e se qualcuno mi chiedesse se era proprio così che avrei immaginato la vita a trent’anni la mia risposta sarebbe chiara, senza esitazioni: assolutamente no.”




Essere dei trentenni nella società attuale non è di certo semplice. La pressione a cui siamo sottoposti dal futuro che i nostri genitori desiderano per noi, dalle frecciatine che la zia acida a Natale ci riversa addosso; dagli amici con un lavoro, una casa e prole al seguito, di certo non ci consentono di vivere la nostra vita in maniera libera, lontana dai luoghi comuni e all’altezza dei nostri sogni.

Sì, perché a trent’anni sei ormai un adulto a tutti gli effetti e secondo una mentalità retrograda, ma ancora ben radicata nella mente dei ben pensanti, se non hai un lavoro fisso, un marito e hai messo in cantiere almeno un figlio, puoi ritenerti un fallito.

A raccontarci in modo brillante, ironico e frizzante, il calvario di noi trentenni è Valentina Ferrari, con il suo romanzo “L’arte di restare a galla”.
La protagonista è Amelia, una ragazza dai lunghi capelli biondi, studiosa e intelligente, ma abbastanza sfortunata. Vive nella cantina dei suoi e per conquistarsi un minimo di indipendenza svolge tre lavori: scrive per una rivista di hipster; porta a spasso il cane della signora Masi e fa la cameriera in un pub. 

Il suo ragazzo, Andrea, divide ancora il tetto con i genitori e insegue un unico sogno: quello di vivere delle sue poesie. Dopo una lunga relazione non sente ancora la necessità di prendersi le sue responsabilità, di pensare a costruire un futuro con Amelia. 

Intanto, la nostra protagonista, tra un attacco di panico e una crisi di pianto, incontra sulla sua strada tutte le difficoltà che noi giovani adulti ci troviamo ad affrontare: colloqui di lavoro fallimentari - soprattutto se sei donna, perché prima o poi desidererai avere un figlio e la maternità per molti datori di lavoro non è per niente contemplata - turbamenti sentimentali legati alla ricerca di quella stabilità che tanto agognamo e quel timore di non farcela, che ci fa restare svegli la notte e ci tormenta tutto il giorno.

Quello che ho apprezzato tantissimo di questo romanzo, è proprio il messaggio finale che vuole lasciarci l’autrice, che è reso esplicito dalla presa di coscienza di Amelia. 
Non importa quali obiettivi pensavi di raggiungere al compimento dei 30 anni, perché la vita è quello che ti capita tra un progetto e l’altro. Se Amelia avesse realizzato la sua idea di vita perfetta da donna sposata e madre, probabilmente non avrebbe mai incontrato Alberto, Milvia, Lidia e Viola, i suoi simpatici amici attempati che parlano in romanesco e le regalano sorrisi anche nelle giornate più difficili; non si sarebbe riscoperta una donna multitasking alle prese con ben tre lavori diversi e, infine, non avrebbe conosciuto Federico, il principe azzurro delle fiabe. 

Perché la vita non finisce a 30 anni, inizia semplicemente una fase più matura e consapevole, ma non per questo meno bella. 

lunedì 9 novembre 2020

[BLOGTOUR]: “ALICE, DOROTHY, WENDY - LE TRE FIGURE FEMMINILI”


Ciao a tutti miei cari lettori, sono tornata su questi schermi per parlarvi di una meravigliosa nuova uscita edita Oscar Vault: “Alice, Dorothy e Wendy”, tre personaggi che hanno affollato le nostre menti di bambini con le loro storie fantastiche e che non siamo mai riusciti davvero ad abbandonare. Ma perché queste tre figure femminili sono davvero così affascinanti? Riflettiamoci insieme, perché la risposta è davvero più semplice di ciò che pensiamo.

In un mondo di principesse, regine, fanciulle che hanno bisogno di essere salvate e sentono la necessità di trovare un principe azzurro, Alice, Dorothy e Wendy sono delle figure controcorrente, a tratti brillanti e completamente atipiche.


Il romanzo scritto da Lewis Caroll ha per protagonista una coraggiosa ragazzina bionda che si perde in un mondo fantastico - dopo essere caduta nella tana di un coniglio - e lì non incontra l’uomo della sua vita, ma una serie di personaggi meravigliosi e totalmente strambi.

Il gatto di Chesire grosso, matto, ma anche tanto arguto e furbo; il Cappellaio Matto con la sua perenne passione per l’ora del tè e le sue particolari “perle di saggezza” e ancora il Brucaliffo di poche parole, suscettibile e sempre attaccato al suo narghilè.

Alice con il suo vestitino azzurro pallido e il colletto bianco, incontra tutte queste figure particolari, a volte anche inquietanti, parla con loro, va incontro alle difficoltà e così si impone come una figura ribelle che sceglie da sola la strada da percorrere, compie degli errori e si corregge portandosi in salvo con le sue forze.

Il romanzo di Caroll è stato scritto in epoca vittoriana, periodo in cui le donne non avevano grandi possibilità di imporre la propria indipendenza e autonomia. Ecco perché Alice è un ragazza straordinaria, che si gode la vita, parla con la sua mente e affronta gli ostacoli che trova sul cammino con la sua intelligenza e caparbietà.


Un altro personaggio interessante è quello di Wendy Darling, la protagonista femminile del romanzo di JM Barrie. A questo punto devo dirvelo: io le persone che parlano di una sindrome di Wendy non le ho mai capite. Come si fa ad affermare che questa ragazza sia dipendente da Peter Pan e che si comporti da crocerossina?

Sì, Wendy si prende cura dei suoi fratelli sull’Isola che non c’è, ma questo perché - anche se durante il romanzo presenta un rifiuto verso la vita da adulta - nei fatti è l’unica a dimostrare un forte senso di responsabilità che la porta a vestire spesso i panni di “madre”, anche nei confronti dei Ragazzi Perduti.

Proprio lei, si rende subito conto che l’esperienza vissuta con Peter Pan l’ha cambiata, rendendola nei fatti una giovane donna, la quale è pronta a raccogliere i frutti della sua crescita e che finalmente non ha più paura della parola “adulta”.

Che poi alla fine, diciamoci la verità: noi donne siamo sempre un passo avanti agli uomini in fatto di maturità e Wendy ce lo ha mostrato fin dall’infanzia!



E Dorothy? All’inizio, rispetto alle altre due figure di cui ho già parlato in questo articolo, appare una ragazzina molto impaurita e debole, sicuramente ci sembra impossibile che possa affrontare il magico e bizzarro mondo di Oz con il solo aiuto del suo cagnolino Toto e di 3 strambi personaggi: l’uomo di latta, un leone codardo e uno spaventapasseri.

Invece, la vera forza di questa protagonista femminile è proprio la sua evoluzione: il pericolo costante, l’essere sballottata in un contesto completamente diverso dalla sua quotidianità, fa in modo che Dorothy trovi in sé la forza interiore per abbattere le difficoltà e tornare a casa con il suo cagnolino.

Dorothy diventa una donna forte, simbolo non solo della lotta contro il male - sconfigge la Strega cattiva dell’Ovest - ma di tutte coloro che si trovano in una situazione sfavorevole e affrontando il pericolo, riescono a migliorarla. 

Spero che queste riflessioni su Alice, Wendy e Dorothy vi abbiano ispirati o quanto meno incuriositi, ma soprattutto che vi spronino a rileggere le storie di queste tre ragazze, guardandole sotto una nuova luce, più ribelle, più atipica, più consapevolmente femminile.

Un abbraccio a tutti voi e a presto

La contessa rampante

mercoledì 18 marzo 2020

[Recensione]: "Il ritratto" di Ilaria Bernardini




Titolo: Il ritratto
Autore: Ilaria Bernardini
Casa editrice: Mondadori
Data di pubblicazione: 28 Gennaio 2020
Pagine: 369
Prezzo: 19,00 €

Sinossi

Valeria Costas, è una scrittrice amata in tutto il mondo, ha dedicato la sua vita ai libri e al suo grande amore Martìn Aclà. Mentre lei vive solo a Parigi, lui abita a Londra con moglie e figli. I due sono amanti da più di 25 anni e nessuno sa di loro. Quando Valeria scopre alla radio che Martìn ha avuto un ictus, il suo mondo crolla. Deve trovare un modo per vederlo e stare con lui, così escogita un piano: commissiona il proprio ritratto alla moglie di Martìn, Isla Lawndale, una famosa pittrice e grazie a questa bugia riesce a inserirsi in casa Aclà. 
Così Valeria e Isla si ritrovano una davanti all'altra, affascinate e intimorite l'una dell'altra. Giorno dopo giorno le due donne si studiano e cominciano a raccontarsi, creando un'intimità sempre più profonda. Isla capirà tutto? Valeria confesserà? Per scoprirlo dovrete leggere il ritratto.


Recensione

Leggo davvero tanti libri, una cinquantina all'anno più o meno. Durante la lettura mi capita di accedermi di rabbia, di detestare personaggi, di sorridere per delle frasi che forse direi anche io, ma difficilmente accade che mi emozioni. Davanti a un film sempre, a teatro pure, ma un libro per commuovermi deve davvero farmi soffrire, graffiarmi dentro e lasciarmi un ricordo importante.
Con "Il ritratto" di Ilaria Bernardini mi è successo proprio questo. 

La storia che racconta l'autrice è davvero realistica e appassionate, tanto da macinare pagine e pagine e non accorgervene neanche. Protagonista è Valeria Costas, una scrittrice famosa che è amante di un uomo da più di 25 anni. La parola amante è, però, riduttiva. Perché lei e Martìn si amano da sempre, anche se lui ha una moglie e tre figli. Un giorno la vita della donna è sconvolta da una terribile notizia che apprende alla radio: Martìn ha avuto un ictus, è costretto a letto e deve la sua vita a dei macchinari a cui è attaccato. Valeria deve trovare un modo per rivedere l'uomo che ama e così si aggrappa a un piano disperato: un ritratto commissionato alla celebre pittrice Isla Lawndale, moglie di Martìn.


"Cosa vuol dire amare? Come sopravviviamo alla nostra storia, al nostro dolore? È un racconto sul lasciare andare via tutto, la vita, il possesso, la gelosia, la giovinezza, il passato, il presente. Sulla resa e la sopravvivenza. Infine, sul lasciare andare anche il desiderio di sopravvivere e imparare a scomparire".


Valeria affida alle pagine dei libri che scrive i suoi pensieri e la sua stessa vita: l'amore per Martìn, quella terra greca a cui resta legato il ricordo di sua madre Theodora e della sorella Sybilla, il volto di un padre che non c'è mai stato e tanto altro. Perché non c'è solo Valeria, Martìn e Isla, ma un mondo di eventi e personaggi legati a queste tre figure principali di cui piano piano Ilaria Bernardini ritrae i volti e le storie personali, con stralci di racconti, momenti ed eventi significativi che il lettore raccoglie qua e là, ricostruendo l'intero puzzle narrativo del romanzo. 


"Non riesci a finire le cose dolorose?" aveva chiesto lei.
"E con la vita come fai?"
"Infatti soffro"aveva detto Martìn.


Valeria è l'amante, ma in poco tempo diventa l'amica dell'altra, la confidente di sua figlia, un volto familiare a cui ci si può appoggiare per rendere meno dolorosa la sofferenza. E questa non è finzione, non è approfittare del nemico. La Costas davvero si affeziona all'anima fragile di Isla e a quella ribelle dell'adolescente Antonia, forse per uno scherzo del destino o semplicemente perché anche lei ha bisogno di amore e consolazione. 
Tutto ciò accade non senza che la famosa scrittrice continui a porsi degli interrogativi, ma solo uno è quello a cui fanno perno tutti gli altri: ama Martìn talmente tanto da non lasciarlo andare? Ama Martìn talmente poco da non lasciare in pace la sua famiglia?


Tra bugie, sotterfugi, passioni e fughe si consuma il dramma di Valeria, una donna che si è sempre sentita sola, senza rendersi conto di essere stata proprio lei a volerlo. 


Ho cercato di non raccontarvi troppo di questo romanzo, perché voglio che lo scopriate da voi, mettendo insieme quei famosi pezzi del puzzle di cui vi ho parlato. 
Vi lascio con un consiglio: durante questa quarantena forzata regalatevi una storia meravigliosa e commuovente e non abbiate timore di far scorrere le lacrime e di emozionarmi, perché succederà ed in questo momento ne abbiamo davvero bisogno.


A presto, 
La vostra Contessa